Poi fu l'avambraccio

mercoledì 20 gennaio 2010



La cotenna tatuata giace, a imperitura memoria (salvo imprevedibili prolungati black-out)
nel piccolo vano freezer del mio piccolo frigo.

Quando ho ricevuto dal corriere il kit tattoo ho provato una sensazione strana. Di certo ero contento, ma con una punta di dubbio che sulle prime non ho compreso. Sorridevo, sì... ho chiamato amici per annunciare il lieto evento, è vero... però era come se non riuscissi a gioirne fino in fondo.

Sulle prime ho pensato che questa quasi indifferenza fosse stata buttata lì distrattamente (come una maglietta sporca nel cesto della biancheria da lavare) dalla parte conservatrice di me, quella che a lungo ha fatto sì che in caso di pioggia, cercassi riparo sotto gli alberi.

Perché, se ci si pensa, la pioggia è acqua nuova, che non c'era e che ora c'è, qualcosa con cui spesso sei costretto a fare i conti, come una nuova conoscenza che ti sorprende nel mezzo di una piazza immensa, dove non puoi cercare ripari o nascondigli.

Di regola il riparo è l'albero della conoscenza. Ti piazzi lì sotto, aspetti che scampi, ma... corri un rischio: che l'acqua si raccolga, diventi nota, e ti cada sopra tutta insieme.

No, non era questo. Nulla di così filosoficamente rilevante.

La mancanza di gioia pura era figlia in parte della consapevolezza della scelta fatta, una scelta che mi impone di espormi a tutto ciò che è nuovo e non conosciuto (almeno nel territorio dell'inchiostro sottopelle), ma anche da qualcosa di molto più banale: sapevo di volermi tatuare, ho comprato il kit apposta per avere un tatuatore di fiducia, me stesso, sempre a portata di mano... ma ho realizzato che non avevo nessun soggetto pronto, nulla che mi ispirasse.

L'agognato pacco della Incredibile Tattoo Supply lì, sul divano, e io a guardarlo, pensando: "Prima o poi mi dirà qualcosa".

Perché chi pensa che il tatuaggio sia una questione estetica, secondo me, ha capito ben poco della cosa. Michelangelo sosteneva che nello scolpire "La Pietà" non avesse fatto altro che togliere il marmo in eccesso dall'enorme blocco che aveva di fronte, che la figura fosse già lì, presente... che a lui era toccato solo di liberarla.

Con i tatuaggi, con i miei tatuaggi, non accade qualcosa di molto diverso. E' come se fossero parti di me sottopelle che non aspettassero altro che venire in superficie. Come se in realtà non si dovesse inserire inchiostro, ma scartavetrare via la pelle che ne occlude la vista.

Eppure sulle prime non sapevo ascoltarmi... perché di cose sottopelle ne ho tante... immagini, idee, sogni, ferite, paesaggi, catene, cesoie... e per giorni ho brancolato nel buio.

Fino a quando mi è venuto in mente un mio vecchio post, tendenzialmente autobiografico (almeno fino a quel momento della mia vita), pubblicato nel mio blog quasi tre anni e mezzo fa: Il canto del Giullare Teschio, un canto in rima che racconta di un giullare, socievole per definizione, che però ogni tanto ha il vizio o la pretesa di avre voglia di parlare di vita, di amore, di morte, di destino, di giustizia, di equilibrio... argomenti di fronte ai quali la maggior parte della gente scappa preoccupata.

In quel post c'è una foto, frutto della fusione di un autoscatto con indosso il cappello da Jester che qualcuno mi regalò anni fa e un teschio, preso a prestito (si fa per dire, non l'ho mai restituito) da un qualche sito internet.

Eccolo un compagno di viaggio che ho sotto la pelle da tempo. Aspettava solo di essere portata in superficie. Ed è sputanto lì, sul mio avambraccio sinistro.

Mi piacerebbe dirvi che è spuntato come per magia, e invece no. E' spuntato dopo 2 ore di dolore, aghi e sangue.

Perché quando ti fai tatuare, e ancor di più se ti tatui da solo, il dolore è una pioggia per cui non esiste riparo. Ma è una pioggia tiepida, sottile, ed è bellissimo lasciare che ti bagni.





20 Gennaio 2010

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